I contratti “claims made”
I contratti “claims made": i molteplici interventi delle sezioni unite, dalla parziale apertura del 2016 alla decisione del 2018
L’inserimento all’interno dei contratti di assicurazione di pattuizioni c.d. claims made (a richiesta fatta), viene utilizzato per derogare al modello tipico dell’assicurazione della responsabilità civile, disciplinato dall’art. 1917 c.c. Nel contratto tipo codicistico, infatti, l’assicuratore garantisce l’assicurato di quanto questi sia chiamato a rispondere per un fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione (c.d. loss occurence, insorgenza del danno); secondo gli schemi claims made, invece, la copertura viene ristretta ai soli casi in cui la pretesa risarcitoria (claim) all’assicurato sia pervenuta durante la vigenza del contratto, restando così escluse tutte le richieste successive alla scadenza contrattuale benché relative a fatti accaduti durante il periodo assicurato.
Tali tipi negoziali sono nati e si sono sviluppati negli Stati Uniti d’America nel corso degli anni ’80 dove, a fronte di un importante ampliamento dei casi di risarcimento del danno (in particolare, per fattispecie con danni lungo latenti), si era aperta una vera e propria crisi del mercato assicurativo. Ci si rese conto che i modelli assicurativi tradizionali act committed (nei quali è necessario che la condotta dannosa sia stata posta in essere durante la vigenza del contratto) e loss occurrence (per i quali si deve avere riguardo al momento della verificazione del fatto dannoso nei confronti del terzo, con conseguente insorgenza della responsabilità dell’assicurato) consentivano la presentazione di domande di manleva rispetto ad azioni risarcitorie fondate su fatti accaduti in tempi di gran lunga antecedenti la scadenza dei contratti. Ciò determinava problematiche rilevanti per le imprese assicurative che dovevano fronteggiare richieste non preventivate e per le quali non erano state accantonante le opportune riserve.
A ben vedere, peraltro, già in tempi più risalenti la prassi assicurativa aveva tentato di porre un limite all'operatività dei tradizionali contratti di assicurazione della responsabilità civile, limitando la copertura alle richieste di risarcimento che fossero pervenute entro un certo periodo di tempo dopo il sinistro: tali pattuizioni, che costituivano delle mere delimitazioni temporali della copertura (le clausole claims made, diversamente, sembrano incidere proprio sull'individuazione del sinistro assicurato), incontrarono forti resistenze in giurisprudenza e da parte degli assicurati che ne comportarono l'abbandono nella prassi.
Dai paesi anglosassoni i modelli claims made si sono poi diffusi nel mercato assicurativo europeo, creando dibattiti e contrasti nei vari ordinamenti, in alcuni dei quali si è giunti a (parziali) interventi legislativi. Tali schemi contrattuali oggi rappresentano, di fatto, uno dei principali prodotti presenti sul mercato italiano per l'assicurazione della responsabilità civile.
Tali pattuizioni hanno sollevato diverse problematiche giuridiche anche nel nostro ordinamento, come per la corretta individuazione dell’evento sinistro nell'assicurazione della responsabilità civile e l'assicurazione del rischio putativo. La soluzione di tali interrogativi presuppone poi la definizione di aspetti fondanti la materia assicurativa, come l'esatta enucleazione dei concetti di rischio e di sinistro e l'individuazione della natura stessa del contratto di assicurazione.
Su tali modelli negoziali sono intervenute più volte le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, cercando di individuare i loro confini di validità e i possibili rimedi esperibili ove necessario.
Un primo fondamentale intervento è stato quello adottato con la decisione Cass. civ., SS. UU., 6 maggio 2016, n. 9140, con la quale si è tentato di intervenire a trecentosessanta gradi sulle problematiche coinvolte in tali tipi contrattuali. In particolare, richiamando la prima pronuncia di legittimità sul punto, ossia Cass. civ., sez. III, 15 marzo 2005, n. 5624 (poi ripresa da varie sentenze successive), la Corte ha confermato l'orientamento dominante, contenuto in tali decisioni, che riconosce nel tipo contrattuale regolato dall'art. 1917 c.c. il modello c.d. loss occurrence per il quale il ‘fatto accaduto’ durante il tempo dell'assicurazione è il fatto dannoso. La Suprema Corte, inoltre, ha escluso la nullità delle clausole claims made per contrasto con l'art. 2965 c.c., sull'assunto che esse non riguardano un diritto già sorto ma lo prevengono, e ha negato la configurabilità di un'ipotesi di nullità per violazione del dovere di correttezza e buona fede (menzionando il noto arresto di Cass. civ., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724, rel. dott. Rordorf). La Suprema Corte, quindi, ha accertato la natura atipica del contratto claims made puro (nel quale rileva unicamente l'epoca della richiesta di danno da parte del terzo) e la natura tipica del contratto claims made misto (dove la richiesta del terzo deve verificarsi nel periodo di vigenza di polizza mentre il fatto dannoso, a seconda delle varie tipologie in concreto adottate, deve anch'esso verificarsi entro tale periodo ovvero può avvenire anche in un periodo precedente la conclusione del contratto ma temporalmente limitato e predeterminato). La Corte ha poi affermato la validità dell'assicurazione del rischio putativo e il carattere non eccezionale dell'art. 514 cod. nav., prendendo così posizione su tale dibattuta questione e dirimendo il contrasto sorto in seno alla terza sezione della Suprema Corte tra Cass. civ., sez. III, 17 febbraio 2014, n. 3622 e Cass, civ., sez. III, 13 marzo 2014, n. 5791. Ha riconosciuto la natura delle clausole claims made quali patti volti all'individuazione dell'oggetto del contratto e quindi ne ha escluso la vessatorietà.
Ma il cuore di tale decisione risiede nella valutazione della meritevolezza o meno di tali modelli contrattuali. Sotto questo punto di vista, con l'indicazione di linee guida per un giudizio che sostanzialmente si traduce in una valutazione di congruità delle obbligazioni rispettivamente assunte dalle parti, le Sezioni Unite hanno sancito la meritevolezza, in linea di principio, del contratto di tipo puro mentre, nel contratto c.d. impuro, hanno previsto la necessità di un accertamento da effettuarsi di volta in volta, da parte del giudice di merito, prendendo in considerazione tutti gli elementi specifici del caso, quali l'eventuale esistenza e l'estensione di una copertura per il passato, l'importo del premio dovuto, la presenza di asimmetrie informative, l'applicabilità della normativa sui consumatori nonché l'eventuale esistenza di un obbligo assicurativo e la possibilità che la clausola comporti dei ‘buchi di copertura' che finiscano per riverberarsi sui terzi (destinatari ultimi della tutela soggiacente all'obbligo assicurativo). Infine, quale conseguenza di un possibile giudizio di immeritevolezza, le Sezioni Unite hanno invocato l'interpretazione in combinato disposto dell'art. 1419 c.c. con l'art. 2 Cost (richiamando Corte Cost., ord. 24 ottobre 2013, n. 248 e Corte Cost., ord. 2 aprile 2014, n. 77) per affermare l'applicazione dello schema legale loss occurrence di cui all'art. 1917 c.c., con intervento integrativo del contratto ad opera del giudice, quale misura atta a garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti.
Si tratta quindi di una decisione molto importante, poiché ha riconosciuto la possibilità di censurare questi modelli contrattuali, in particolare quando attraverso gli stessi possano verificarsi dei vuoti di copertura; inoltre, quale rimedio esperibile, si è prevista proprio l’integrazione del contratto con sua riconduzione al modello tipico disciplinato dal codice civile (loss occurence). Questa decisione, tuttavia, non ha optato in via astratta per alcuna soluzione, dovendosi valutare caso per caso e questo, come conseguenza, ha comportato l’adozione di soluzioni diversificate sul territorio nazionale, con gli inevitabili rischi connessi alla proliferazione di un contenzioso incerto.
Tale decisione è stata poco dopo confermata da un altro intervento delle Sezioni Unite, 2 dicembre 2016, n. 24645. A distanza di due anni, però, la terza sezione della Suprema Corte, rel.re dott. M. Rossetti, ordinanza 19 gennaio 2018, n. 1465, ha rimesso nuovamente la questione alle Sezioni Unite, evidenziando in maniera assai più netta le problematiche insite in questi modelli contrattuali, ipotizzandone una immeritevolezza generale.
Da ciò è scaturita la sentenza Cass. Civ., SS. UU., 24 settembre 2018, n. 22437. In questa importante e recente pronuncia, la Corte ha cercato di dare continuità alle linee di fondo del ragionamento alla base della prima decisione del 2016, n. 9140, ma con alcune sensibili differenze. Quando la Suprema Corte è tornata ad occuparsi della questione, infatti, nel panorama normativo italiano erano presenti alcuni interventi legislativi che di fatto avevano avallato la bontà, a certe condizioni, del modello contrattuale claims made, prevedendone l’adozione nei settori della responsabilità civile in campo sanitario (art. 11, l. 8 marzo 2017, n. 24), della responsabilità civile degli avvocati (art. 12, comma quinto, l. 31 dicembre 2012, n. 247 e d.m. 22 settembre 2016) e più in generale della responsabilità civile delle libere professioni (art. 3, comma quinto, lett. e, d.l. 13 agosto 2011, n. 138 e ss. mm.). A ben vedere, si tratta di interventi normativi che hanno preso atto dell’esistenza di tali schemi negoziali nella prassi e che hanno cercato di fissare dei limiti minimi di copertura, per il passato e per il futuro; così facendo, secondo la Corte, hanno di fatto traghettato i contratti assicurativi claims made nel terreno degli schemi tipici, come tali non più passibili del vaglio di meritevolezza di cui al secondo comma dell’art. 1322 c.c.
Ciononostante la Corte, riprendendo nella sostanza il tema esposto nella prima decisione del 2016, ha precisato che anche in tali modelli contrattuali deve pur sempre sussistere una causa in concreto dell’operazione e che questa deve essere valutata in considerazione dell’idoneità del mezzo negoziale utilizzato rispetto al fine perseguito. La Corte, inoltre, ha sottolineato l’importanza di verificare anche il rispetto dei doveri di correttezza in fase prenegoziale; infine, ha censurato quelle pattuizioni che consentono alle imprese assicuratrici di esercitare un diritto di recesso a seguito della verificazione di un sinistro.
Quindi, cercando di sintetizzare delle possibili conclusioni sul tema in esame, sembra potersi dire che il problema della validità o meno dei contratti c.d. claims made, al di fuori delle ipotesi oggi legalmente previste, resta sempre vivo; le decisioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte, da parte loro, si limitano a fornire delle linee guida per valutarne appunto la liceità, adesso in particolar modo sotto il piano della validità per sussistenza della causa in concreto.
Tali decisioni destano però non poche perplessità. Innanzitutto perché questi modelli contrattuali mostrano una spiccata attitudine alla creazione di scoperture assicurative che, alla fine, si riverberano sui terzi e quindi sull’intero sistema. Ma al netto di tale considerazione, si aggiunge il fatto che la rimessione di tali indagini ai giudici di merito, caso per caso, con linee guida di fondo particolarmente ampie, conduce a una pesante incertezza del sistema, con il rischio di un preoccupante incremento della litigiosità; invero, un soggetto che abbia corrisposto regolarmente i premi per garantirsi contro determinati eventi, qualora l’impresa assicuratrice dovesse eccepirgli l’assenza di copertura per un fatto verificatosi in corso di vigenza del contratto assicurativo, ma con richiesta postuma, difficilmente potrà accettare questa conclusione senza cercare di dimostrare i vizi insisti in un contratto siffatto. Evidentemente, si tratta di un tema di cui dovrebbe farsi carico il legislatore con interventi di maggiore portata.
16 dicembre 2019