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Apertura su muro divisorio di immobili attigui ma ubicati in distinti condomìni – illegittimità per creazione di una servitù

Si dia il caso che un soggetto risulti essere al contempo proprietario di due distinti immobili, attigui tra loro, ma ubicati in due diversi condomìni. Potrebbe essere di suo interesse, per un migliore godimento di tali beni, far eseguire un’apertura sul muro in comune tra i predetti immobili, così da poterli mettere in comunicazione tra loro.

Si pone il problema di qualificare tale lavorazione da un punto di vista giuridico, per comprendere se si tratti di una facoltà rientrante tra quelle consentite dalla legge al proprietario (ovvero al titolare di altre posizioni giuridiche minori), oppure se sia necessario il consenso degli altri condòmini ovvero ancora se sia un intervento vietato dalla legge.

Della questione si è occupata in più occasioni la Corte di Cassazione, offrendo spunti importanti da diversi angoli visuali.

In particolare si è precisato che, se di norma l’apertura di un varco nel muro perimetrale per esigenze del singolo condòmino è consentita quale uso più intenso del bene comune, ciò non comprende il caso in esame in cui il varco mette in comunicazione l’appartamento del condòmino con altra unità immobiliare attigua, pur di proprietà del medesimo, ricompresa in un diverso edificio condominiale, «poiché in questo caso il collegamento tra unità abitative determina la creazione di una servitù a carico delle fondazioni e della struttura del fabbricato» (Cass. civ., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3035). In tal senso si veda anche Cass. civ., sez. II, 14 dicembre 2016 n. 25775, recentemente confermata da Cass. civ., sez. II, 29 settembre 2020, n. 20543. In quest’ultimo arresto si è precisato che «in presenza di un edificio strutturalmente unico, su cui insistono due distinti ed autonomi condomini, è illegittima l’apertura di un varco nel muro divisorio tra questi ultimi, volta a collegare locali di proprietà esclusiva del medesimo soggetto, tra loro attigui ma ubicati ciascuno in uno dei due diversi condomini, in quanto una simile utilizzazione comporta la cessione del godimento di un bene comune, quale è, ai sensi dell’art. 1117 c.c., il muro perimetrale di delimitazione del condominio (anche in difetto di funzione portante), in favore di una proprietà estranea ad esso, con conseguente imposizione di una servitù per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini».

Nel precedente del 2016, in particolare, parte ricorrente aveva promosso impugnazione per cassazione sostenendo che, pur essendo in presenza di due condomìni (sul cui muro divisorio era stata praticata l’apertura), essi facevano parte strutturalmente di un unico edificio e pertanto il muro non poteva considerarsi perimetrale e quindi non doveva trovare applicazione l’interpretazione giurisprudenziale qui esposta; la Corte di Cassazione, tuttavia, ha disatteso tale ricostruzione, dando «prevalenza, per la soluzione delle questioni prospettate, alla circostanza dell’esistenza di due distinti condomini, circostanza questa che implica la necessaria ed ontologica delimitazione tra gli stessi, risultando la diversa soluzione incompatibile con la nozione stessa di condominio» (cfr. ancora Cass. n. 25775/2016).

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Dunque, poiché l’apertura del varco nel muro condominiale, in tali circostanze, determina la creazione di una servitù, per la costituzione della stessa sarà necessario un contratto in forma scritta (art. 1350 c.c.). Si veda ulteriormente Cass. civ., sez. II, 11 dicembre 2019, n. 32437.

Diversamente, i soggetti interessati, come i condòmini che non abbiano legittimamente acconsentito alla costituzione di tale diritto, potranno agire per ottenere la riduzione in pristino dell’apertura, mediante la ricostituzione del muro, oltre il risarcimento dei danni subiti.

In merito ai danni subiti, peraltro, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che benché l’apertura del varco murario possa far presumere l’esistenza di un nocumento al patrimonio del condòmino, per ottenere il risarcimento è comunque necessario fornire un’adeguata allegazione e prova del pregiudizio, con particolare riferimento al quantum: «ciò che può presumersi è solo l’an debeatur (che presuppone soltanto l’accertamento di un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l"‘id quod plerumque accidit); ne consegue che permane, anche in detta ipotesi, la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione del danno per equivalente pecuniario. Nella specie, quindi, correttamente la corte territoriale ha ritenuto di non poter procedere ad una valutazione equitativa, giacché non è solo in discussione il quantum della lesione patita di problematica dimostrazione, ma anche la sua concreta verificazione che, in assenza di un affettiva dimostrazione, può ritenersi solo possibile o probabile» (cfr. ancora Cass. n. 3035/2009).

Firenze, 13 aprile 2021

Cass. civ., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3035
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Cass. civ., sez. II, 14 dicembre 2016, n. 25775
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Cass. civ., sez. II, 29 settembre 2020, n. 20543
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